Sarà colpa di una accresciuta sensibilità venuta in dono a chi come noi sta girando i quaranta, ma se ci guardiamo indietro non ci sembra vero avere già vissuto più o meno consapevoli, lucidi, ubriachi, assonnati, speranzosi, delusi o felici trentanove Natali, e trovarci qui a fine novembre a ricordare i nostri preferiti, a sorridere e a borbottare che come sempre si stava meglio quando si stava peggio.
Con una buona approssimazione, possiamo dire che metà dei Natali passati per noi hanno avuto come comune denominatore l’attesa della Brighella, la birra di Natale del Birrificio di Lambrate, soprattutto durante gli anni ruggenti di via Adelchi, negli inverni freddi di inizio millennio quando ancora le birre le pagavamo in Lire e al futuro magari non ci pensavamo e se lo facevamo chissà che ci immaginavamo; chi lo sa: dopo tre o quattro Brighelle chi si ricorda più cosa o chi.
Perché se non avete mai provato ad alzarvi da uno sgabellone del Birrificio di Lambrate a fine serata senza che tutto intorno a voi giri offuscato da una dolciastra nebbiolina alcolica, allora non potete dire di avere mai fatto una bevuta come si deve.
In una regione al confine fra Armenia e Azerbaigian pochi anni fa è stata localizzata quella che con tutta probabilità è la più antica installazione vinicola del mondo, completa di torchio e dei resti delle anfore utilizzate per la conservazione del vino. Il sito è datato circa 4100 anni fa e testimonia l’inizio di una storia che ancora oggi è in continua e naturale evoluzione e che, allo stesso tempo, conserva sempre un legame a doppio filo con quella che è una tradizione quasi sacra. Negli ultimi anni, soprattutto, si è avuto un ritorno all’antico sempre maggiore, quasi che in questi tempi dominati dalla frenesia si avverta la necessità anche per quanto riguarda il mondo della viticoltura di rivolgersi al passato, al ‘lento’ o ‘slow’ in contrapposizione alla velocità dei nostri giorni. Proprio per questo oggi si parla sempre più di vino naturale, ma quasi sempre lo si fa in maniera generica e calcando troppo la mano sull’aggettivo, come se la definizione stessa naturale fosse garanzia automatica di vino buono.
La tradizione della pizza e birra è quasi un dogma nella nostra società, più difficile da sradicare del Catenaccio eppure, a ben guardare, quando parliamo di materie prime non possiamo che considerare la birra (che è già di suo a base cereali) come un doppione della pizza: una combo cereali + cereali che certo non aiuta la digestione, nonostante negli anni sia andata maturando l’idea errata che una bevanda gassata o una birra industriale, soprattutto se abbinata a un prodotto da forno altrettanto industriale, possa avere qualche influenza sulla nostra digestione, influenza che invece è irrisoria data la bassa qualità di tali prodotti.
Naturalmente il discorso cambia quando parliamo di una pizza lievitata in maniera corretta e abbinata a una birra non pastorizzata spinata a regola d’arte, ma non è questa la sede per occuparci di pancia gonfia o peggio. Noi al Tabernario preferiamo occuparci di gusto, ed è per questo che siamo sempre alla ricerca dei migliori abbinamenti possibili, quelli in grado di restituire al nostro palato sapori in grado di esaltarsi a vicenda.